La recensione di Coco (2024)

Un Up a ruoli invertiti, dove il protagonista non è un anziano supportato da un ragazzino, ma un ragazzino che ha in una nonna anziana l'unico seppur passivo supporto; dove al centro del discorso non c'è solamente il tentativo di riappropriarsi della propria vita e del suo senso profondo, ma la voglia di riportare l'attenzione sul più grande rimosso delle società occidentali di oggi, ossessionate dalla giovinezza a tutti i costi: la morte.

Un Inside Out trascendentale, dove a raccontare di ricordi e memoria, e prendere forma coloratissima, innovativa e sorprendente, non è la psiche di un personaggio, ma un oltretomba pirotecnico e psichedelico, e soprattutto filosofico.

Coco è tutto questo, e molto di più: è uno dei più importanti e radicali film che la Pixar abbia mai prodotto. E probabilmente il più commovente e intenso. Coco è un costante gioco di prestigio, che lascia a bocca aperta con le sue trovate e la sua storia. Coco è come Philippe Petit che passeggia tra la corda tesa tra le Torri gemelle, in perfetto equilibrio e in stato di grazia, lasciandoci sospesi e a bocca aperta.

La corda di Coco è tesa tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra l'importanza dei legami di sangue e del loro retaggio e l'urgenza di non farsene schiacciare. Tra la storia del dodicenne Miguel che sogna di diventare musicista in una famiglia dove la musica è stata bandita, e quella di Hector, spirito dell'oltretomba che rischia di svanire per sempre, nel nulla, perché nessuno si ricorda più di lui. Nemmeno, forse, sua figlia.

Nel Dia de Los Muertos, per inseguire il suo sogno e fuggire da chi glielo vuol negare, il primo finirà nel Regno dei morti, rischiando di rimanervi intrappolato; sarà il secondo ad aiutarlo, in cambio della promessa di farlo ricordare ancora, dando così il via a una sarabanda di peripezie che porterà entrambi a rimettere in prospettiva molte cose (tra cui la figura dell'idolo musicale di Miguel, un simil-Elvis messicano di nome Ernesto de la Cruz), e a fare scoperte incredibili.

Quello di Lee Unkrich e Adrian Molina è un film visivamente sorprendente, certo. Il modo in cui gli scheletri sono animati ha del geniale; la rappresentazione dell'Oltretomba vale le architetture della mente di Inside Out; la tonalità arancione dominante è un piacere per gli occhi; la trovata di Miguel che, tra i Morti, rischia di svanire un po' come Marty McFly quando, nel 1954, per poco non fa innamorare di sé sua mamma sventando così la sua nascita, è divertentissima e narrativamente azzeccata. Per non parlare della felice psichedelia al peyote degli spiriti-guida dell'oltretomba, o della simpatia del cane Dante. Sono solo alcuni esempi di ciò che rende il film divertente e appassionante, e fruibile anche dai bambini. Ma tutto questo gli adulti rischiano di vederlo attraverso un velo di lacrime, perché Coco è un film capace di commuovere come e più di altri grandi film Pixar.

Commuove, in Coco, il ritratto della bisnonna di Miguel, che poi – guarda un po' – è quella che dà il titolo al film. Vecchissima, rimbambita, in sedia a rotelle, il volto scavato nel cuoio come fosse la versione al femminile di un vecchissimo Jack Palance: è così Coco. Miguel parla sempre a quella nonna che non gli risponde; le parla, perché le sue sono le uniche orecchie che per lui son sempre aperte, e la sua è l'unica bocca che non lo giudicherà: nella sua staticità, della sua accoglienza solo apparentemente passiva, così commoventi, Coco è la quintessenza di un certo modo di essere nonna, di essere famiglia.

Commuove, Coco, quando, nel Regno dei Morti, si assiste alla sparizione definitiva e dolorosa di chi non è più ricordato da nessuno; e quando ogni cosa, ogni rimando, ogni proiezione rimbalzano tra Miguel e Hector, tra la vita e la morte, tra il futuro e il passato.E commuove, soprattutto, nel racconto del desiderio – l'ultimo – di un padre che ha lasciato sua figlia troppo presto, e che chiede solo di poterla rivedere e riabbracciare almeno una volta; di fronte a una figlia anzianissima che torna bambina di fronte al ricordo di suo padre, e alla sua musica.

Non è certo la quantità di lacrime versate (sicuramente soggettiva…) il metro per valutare un film: ma serve a sottolineare la straordinaria capacità di Coco di trascinare nel racconto, di coinvolgere l'emotività, non solo per il gusto di poter commuovere, ma per meglio innestare della testa e nel cuore di chi guarda quello che più gli interessa.

Il fatto è che Coco parla di cose di cui oggi si parla pochissimo, o troppo e con abuso di retorica spesso e volentieri ideologica, perdendo di vista il lato umano delle cose e il buon senso che dovrebbe essere alla base di ogni comportamento e considerazione. Coco parla della vita di fronte alla morte, dell'importanza della memoria, del ricordo, delle radici, dell'appartenenza a qualcosa che non è solo sangue, ma storia condivisa.Parla, ancora, della possibilità (troppo spesso raccontata invece come impossibilità) di conciliare le passioni singolari e le esigenze di un gruppo, il rispetto per i legami familiari e per la tradizione con la necessità di evolvere e crescere e vivere liberi da legacci e imposizioni, la realizzazione personale e gli affetti familiari. Parla di come tradizione e progresso possano essere l'una il sostegno dell'altro.

Due pilastri, due sostegni per una corda tesa sulla quale camminare, tenendosi in equilibrio, come per magia: grazie alla forza di un amore e di un'empatia che non sono mai scontati né retorici, ma sentimenti puri e spontanei che dovremmo imparare nuovamente a provare senza troppe mediazioni.

La recensione di Coco (2024)
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Author: Francesca Jacobs Ret

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